Il filosofo del diritto dell’Università di New York, Jeremy Waldron, nel suo coinvolgente libro intitolato “The harm in hate speech” – in italiano, “il danno nelle espressioni di odio” – tratta dell’annosa questione legata alla regolamentazione di quel fenomeno – il c.d. hate speech –, richiamato per l’appunto nel titolo dell’opera medesima, costituito da tutte quelle espressioni, verbali o scritte, e rappresentazioni che incitano all’odio nei confronti di individui o gruppi di individui, sulla base della razza, della religione, del sesso, dell’etnia o dell’orientamento sessuale.
Gli Stati Uniti rappresentano ormai l’unica tra le democrazie liberali occidentali ad optare per la non punibilità di tali comportamenti, mentre Paesi come il Canada, la Nuova Zelanda, la Gran Bretagna, quelli Scandinavi e la Germania prevedono una regolamentazione normativa dell’hate speech, nel sistema giuridico americano, invece, grazie alla protezione del Primo Emendamento della Costituzione, anche il discorso carico di odio è consentito purché non contenga minacce o diretto incitamento alla violenza.
Waldron avanza strenuamente la proposta volta alla rivisitazione della tradizione costituzionale e giuridica statunitense in tema di hate speech e, nonostante egli stesso sia il primo a sapere di trovarsi all’invalicabile ostacolo rappresentato dal Primo Emendamento della Costituzione, non si arrende nel tentare di catturare l’attenzione dei propri lettori americani sui danni e sugli effetti che tali discorsi pregni di odio provocano all’interno della società, in special modo sulle minoranze. Il suo principale obiettivo è quello di valutare ed evidenziare se la giurisprudenza americana in tema di hate speech abbia realmente raggiunto l’apice, il miglior approdo possibile, riguardo alla disciplina di tale fenomeno. Come egli nota, “le argomentazioni filosofiche sulle espressioni di odio sono istintive, impulsive e sconsiderate”, dovute, almeno in parte, alla confusione regnante sulla materia e soprattutto sui valori in gioco. L’odio viene ritenuto estremamente rilevante non in quanto motivazione di certe azioni, ma come possibile effetto di certe forme di espressione. Conseguentemente, il vero punto critico è rappresentato dalla particolare situazione di disagio sociale, di attacco alla dignità, nella quale verrebbero a trovarsi le persone vulnerabili oggetto di odio per motivi di razza, etnia, religione o quant’altro.
Waldron sostiene che la diffamazione scritta conti molto di più di quella manifestata oralmente, dal momento che assume una forma permanente, perpetua, in grado di ledere costantemente nel tempo, di far sentire perennemente a disagio gli individui colpiti, non accettati nel proprio contesto sociale. Ciò, tra l’altro, risulta recentemente ancor più aggravato da Internet, dove, grazie a motori di ricerca come Google, l’espressione diffamatoria, di odio, diviene immediatamente disponibile a qualunque utente sparso nel mondo. Nell’era di Internet, quando un video di calunnia può diventare “virale” e attirare milioni di spettatori (e quindi rischiare di esistere per sempre nel ciberspazio), la distinzione proposta tra la parola scritta e parlata si rompe. Ciò che, secondo l’impostazione di Waldron, dovrebbe rimanere escluso dalla regolamentazione è solo la parola che non viene memorizzata e pubblicata sulla Rete.
Il danno alla dignità, si diceva, è l’effetto dell’hate speech che interessa maggiormente l’autore: per dignità egli intende “la posizione sociale, i fondamenti della basilare reputazione che dà diritto a chiunque di essere trattati egualmente nella gestione ordinaria della società”. Waldron riassume il suo punto di vista, affermando che l’incitamento all’odio e la diffamazione avverso le minoranze sono azioni eseguite in pubblico, con un orientamento pubblico, volte a minare beni pubblici, ossia il bene della tutela della dignità all’interno della società. Ed è proprio tale dignità – bene supremo e indissolubile – che deve essere protetta e tutelata anche a fronte di limitazioni alla libertà di espressione.
Nel portare avanti la propria teoria, Waldron porta in rilievo tesi avverse di grandi studiosi e filosofi americani come Edwin Baker e Ronald Dworkin, con l’obiettivo di confutarle e dimostrare quanto, in realtà, per la società americana attuale, sia più opportuna una regolamentazione dell’hate speech che non ceda all’estremismo liberale. Allo stesso tempo, l’autore volge lo sguardo indietro, al passato illuminista, nel quale riesce a trovare supporti teorici alla sua impostazione (come lo stesso Voltaire), e addirittura alla giurisprudenza inglese e americana del XVII e XVIII, portata come esempio di quella cultura giuridica, già dunque esistente anche nei sistemi di Common Law, indirizzata verso la repressione di manifestazioni d’odio nei confronti delle minoranze. Ciò, nell’auspicio che chiunque abbia a cuore l’integrità di una società ben ordinata e rispettosa dei diritti dei cittadini non ignori il fenomeno in questione e, soprattutto, gli effetti che produce